responsabilità medica civile

Responsabilità medica in ambito civilistico alla luce della riforma del 2017

Responsabilità medica civile: di cosa si tratta

Quando si parla di responsabilità, si può incorrere nel rischio di confondere i due piani su cui essa può operare, senza tralasciare il fatto che essi possono spesso coesistere: quello penale e quello civile.
Infatti, una qualsiasi azione (od omissione) illecita può comportare conseguenze tanto in ambito civile quanto in ambito penale.  E così, naturalmente, per ciò che concerne la responsabilità in campo medico.
La materia specifica, da sempre oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza per le implicazioni sotto più aspetti che essa comporta, ha subito una profonda rivisitazione ad opera della Legge n. 24/2017 (Legge Gelli – Bianco). Vediamo di cosa si tratta.

Differenza tra responsabilità penale e civile e classificazioni di quest’ultima

Qual è la differenza tra responsabilità civile e penale? Assai sinteticamente essa può così riassumersi:
  • la responsabilità penale consegue alla violazione di una norma posta dalla legge per sanzionare un reato. La sanzione per la violazione può essere di tipo pecuniario o detentivo, la multa, la reclusione.
  • la responsabilità civile opera invece nell’ambito dei rapporti tra privati per l’inadempimento di un’obbligazione, per la commissione di un fatto illecito e per altri casi espressamente previsti dalla legge. La sanzione in ambito civilistico può essere pecuniaria o consistere nell’obbligo di fare o non fare qualcosa. In nessun caso può tradursi in una pena detentiva.
La classificazione di base della responsabilità civilistica è quella che corre tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
Fondamentalmente la distinzione tra le due categorie va ricercata nel fatto che la responsabilità contrattuale (e le sue conseguenze sul piano risarcitorio) deriva dalla violazione di specifici obblighi contenuti in un contratto che lega due o più soggetti tra loro. Quella extracontrattuale, invece, non prevede alla base un vincolo contrattuale ma l’obbligo risarcitorio deriva dalla commissione di un qualsiasi fatto doloso (volontario) o colposo (involontario) che abbia causato ad un soggetto terzo un danno ingiusto.
Sul piano processuale poi corre tra le due ipotesi una differenza che si rivela spesso determinante sull’esito della lite.
In ambito contrattuale, infatti, chi agisce in giudizio sarà unicamente tenuto a dimostrare l’esistenza del vincolo contrattuale ed il danno subito, ma non la colpa, essendo questa presunta. Spetterà così a chi viene convenuto in giudizio fornire la prova di assenza di colpa, così come si ricava dall’art. 1218 cod. civ.: <<Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile>> 
In ambito extracontrattuale, viceversa, l’onere della prova posto a carico di chi agisce in giudizio si estende anche alla dimostrazione della colpa di chi ha causato il danno. Pertanto, l’attore dovrà dimostrare tanto il fatto, il danno ed il nesso di causalità tra i primi due, quanto la colpa (o il dolo) di chi lo ha commesso. L’art. 2043 cod. civ. così recita: <<Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.>>
Ciò chiarito in termini (veramente) generali andiamo a vedere come opera la responsabilità del medico e degli operatori sanitari, circoscrivendo al nostra indagine alla sola responsabilità in campo civilistico.

La Legge Gelli-Bianco: il perché della riforma

La legge n. 24/2017 (cd. Gelli-Bianco) ha operato una profonda riforma della materia di cui si discute con l’intento di ridisegnare il rapporto medico/paziente, eccessivamente condizionato dalla medicina cd. difensiva praticata dagli operatori timorosi di incappare nell’errore e dunque tendenzialmente poco inclini alla pratica di trattamenti di particolare complessità e, al contempo, di porre un limite al contenzioso riguardante la responsabilità medica. 

Bipartizione della responsabilità civile

L’articolo 7 della Legge Gelli – Bianco prevede un doppio binario. La norma  opera, infatti, una distinzione tra le responsabilità della struttura sanitaria e quella dell’esercente la professione sanitaria: <<1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata  che,nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti  dal  paziente  e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde,  ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice  civile,  delle  loro  condotte dolose o colpose. 2. La disposizione  di  cui  al  comma  1  si  applica  anche  alle prestazioni  sanitarie  svolte  in  regime  di   libera   professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e  di ricerca clinica ovvero in  regime  di  convenzione  con  il  Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina. 3. L’esercente la professione sanitaria di  cui  ai  commi  1  e  2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043  del  codice civile,  salvo  che  abbia  agito  nell’adempimento  di  obbligazione contrattuale   assunta   con   il   paziente […]>>.  
In particolare, dal richiamo all’art. 1218 cod. civ. operato dalla norma in esame, si avrà una responsabilità di natura contrattuale della struttura sanitaria per la condotta dolosa o colposa degli esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa. La stessa disciplina si applica anche per le prestazioni svolte in regime di “intramoenia” ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero ancora in regime di convenzione con il SSN nonché attraverso la telemedicina.
Dal punto di vista pratico, come accennato in premessa, la classificazione contrattuale della responsabilità della struttura comporta, da un lato, l’onere della prova liberatoria a carico della struttura stessa, e, dall’altro, un maggiore termine prescrizionale (dieci anni).
L’esercente la professione sanitaria, viceversa, è chiamato a rispondere in via extracontrattuale, secondo quanto dispone l’art. 2043 cod. civ.
Dal punto di vista pratico questo comporta, come premesso,  l’onere della prova a carico del paziente che agisce in giudizio, che sarà chiamato a dimostrare il fatto illecito, il danno, la colpa o il dolo e il nesso di causalità tra la condotta e l’evento lesivo.  Non solo. La relativa azione si prescrive in cinque anni e non in dieci.
Attenzione. La legge pone una deroga, prevedendo anche per l’esercente la professione sanitaria una responsabilità di natura contrattuale (con ciò che ne consegue per quanto sopra) per le ipotesi in cui la sua condotta si collochi nell’ambito dell’adempimento di una <<obbligazione contrattuale assunta con il  paziente>>.
Al di fuori di questa eccezione, la conseguenza della bipartizione operata dalla legge Gelli-Bianco appare evidente e risiede nell’indirizzare i pazienti asseritamente danneggiati, che volessero adire l’autorità giudiziaria per ottenere un risarcimento, ad intentare l’azione nei confronti della struttura e non già dell’operatore sanitario, che, così trovandosi maggiormente tutelato, potrà gradualmente abbandonare l’uso della cd. medicina difensiva, necessitata dal timore di subire conseguenze legali dal proprio operato.

Il danno

Il   medesimo art. 7 detta poi un criterio preciso per la determinazione del risarcimento del danno.
Il giudice <<tiene conto della condotta dell’esercente la professione  sanitaria  ai  sensi  dell’articolo  5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies  del  codice  penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge>>. In buona sostanza, il giudice dovrà valutare il grado dell’omessa conformazione dell’esercente la professione sanitaria alle linee guida ed alle buone pratiche.
Inoltre,  <<il danno conseguente all’attività della struttura  sanitaria  o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente  la  professione sanitaria e’ risarcito sulla base delle tabelle di cui agli  articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui  al  decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario,  con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri  di  cui  ai  citati  articoli,  per  tener  conto  delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui  al presente articolo>>.
Pertanto, la quantificazione del danno dovrà essere disposta seguendo pedissequamente i criteri dettati dagli artt. 138 e 139 del Decreto Legislativo n.209/2005 (cd. Codice delle Assicurazioni Private), che trattano, rispettivamente, le lesioni di non lieve entità e quelle di lieve entità.

Il tentativo obbligatorio di conciliazione

Con evidenti finalità deflattive, l’art. 8 recita: <<Chi intende  esercitare  un’azione  innanzi  al  giudice  civile relativa a una controversia di risarcimento del  danno  derivante  da responsabilità sanitaria è  tenuto  preliminarmente  a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente>>.
La procedura in questione, che si svolge davanti al giudice competente per l’eventuale successiva causa nel merito, altro non è che un accertamento tecnico preventivo finalizzato alla composizione anticipata della controversia. Il consulente tecnico nominato non si limiterà dunque ad accertare e quantificare l’eventuale danno ma dovrà anche tentare di la conciliazione tra le parti.
Tale procedura può essere sostituita, in alternativa, da quella di mediazione presso un organismo con accreditamento ministeriale,   ai  sensi  dell’articolo  5,  comma  1-bis,  del  decreto legislativo 4 marzo 2010, n.  28.
In ogni caso, le due procedure alternative costituiscono <<condizione di procedibilità della domanda di risarcimento>>. Ciò sta a significare che il giudice direttamente adito nella causa di merito ha l’obbligo di invitare le parti che non l’avessero fatto a dare avvio ad uno dei due meccanismi deflattivi sopra indicati, pena l’improcedibilità della domanda giudiziale.

L’azione di rivalsa: dolo e colpa grave  

L’art. 9 disciplina l’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, per i danni causati al paziente. 
In particolare, l’azione di rivalsa potrà essere esercitata:
A) nei soli casi di dolo e colpa grave;
B) solamente se l’esercente la professione sanitaria sia stato parte nel giudizio (o nella procedura stragiudiziale preventiva);
C) a condizione che il danno sia stato accertato in base ad un titolo giudiziale o stragiudiziale;
D) sempre che l’azione di rivalsa venga intentata, a pena di decadenza, entro un anno dal pagamento della somma liquidata a titolo risarcitorio.
Per le ipotesi di colpa grave (e non di dolo) l’importo cui può essere tenuto l’esercente la professione sanitaria gode di un massimale. Per la precisione, per ciascun evento, detto importo non potrà comunque superare una somma pari al triplo del valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo.
Nasce spontanea la domanda. Tralasciando l’ipotesi di dolo, evidente a tutti, in cosa consiste la condotta caratterizzata da colpa grave?  Da cosa si differenzia rispetto alla colpa non grave o lieve?
Non è sempre agevole valutare la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e causativa del danno da quella che si sarebbe dovuta tenere per evitarlo. 
In termini veramente indicativi può dirsi che la colpa è grave quando l’esercente la professione non si attiene ai protocolli ed alle linee guida obbligatorie ovvero quando il danno è causato per negligenza o imprudenza. Nella valutazione dovranno considerarsi la prevedibilità dell’evento, il grado di esigibilità in relazione alle competenze specifiche di chi ha cagionato il danno, eventuali ragioni, caso per caso, di urgenza.
Interessante, in proposito, la sentenza del Tribunale di Napoli, sez. VIII, del 26.11.2018. Secondo i giudici partenopei la Legge n. 24/2017 prevede la configurazione dell’intensità della colpa in relazione al rispetto o meno delle linee guida o anche delle buone pratiche. Per tale motivo il medico che, posto davanti alla risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, si sia attenuto alle linee guida o alle buone pratiche cliniche-assistenziali, non potrà mai essere considerato in colpa grave, e ciò indipendentemente dall’esito dell’intervento chirurgico,  .

Garanzie a favore degli esercenti la professione medica

La legge pone inoltre una serie di garanzie a favore dell’esercente la professione sanitaria, garanzie che intervengono nell‘iter di accertamento della responsabilità.
L’art. 13, ad esempio, tutela il diritto al giusto contraddittorio e obbliga le strutture sanitarie e sociosanitarie e le imprese di assicurazione a comunicare (con raccomandata a.r. o con PEC) all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato. Tale comunicazione deve essere inoltrata entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo o dall’avvio delle trattative stragiudiziali con il danneggiato, e deve contenere l’espresso invito a prendervi parte.
L’omissione della comunicazione in parola comporta l’inammissibilità dell’azione di rivalsa di cui si è parlato al punto precedente.
Un’altra forma di garanzia è posta dall’art. 15, che prevede che l’accertamento della responsabilità venga svolto da professionisti specializzati in medicina legale e particolarmente qualificati per la materia specifica oggetto di causa.
La precisazione introdotta dalla norma non è così scontata come potrebbe sembrare a prima vista, in quanto non era infrequente che i CTU nominati non si rivelassero all’altezza del compito assegnato loro e dovessero essere sostituiti.

In conclusione

Per concludere può affermarsi che l’intervento normativo che si è, per grandi linee, analizzato fornisce un evidente ausilio al fine del riequilibro del rapporto medico/paziente.
Da un lato, infatti, la disciplina non manca di porre  tutele a favore dei pazienti che dovessero subire danni derivanti da condotte evidentemente gravi. Dall’altro, consente ai medici di abbandonare la diffusa pratica della medicina “difensiva”, per riprendere a svolgere la loro professione serenamente, non più sovraesposti al rischio, sempre dietro l’angolo, di coinvolgimento in azioni legali azionate a censura del loro operato. Con l’ulteriore conseguenza – aspetto questo di non secondaria importanza – di migliorare l’offerta di qualità dei servizi sanitari a beneficio del paziente.
 
 

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